Meditazione sul Vangelo
della XXIV domenica del T.O. anno A
17 settembre 2017
Mt 18,21-35
Morire non è nulla; non vivere è spaventoso.
V. Hugo, I miserabili
La parola ‘perdono’ nasce nel latino medievale per tradurre un’espressione presente in una favola scritta in greco, in cui si parlava del dono con cui veniva restituita la vita a una persona condannata a morte. Il traduttore percepisce che quel dono, ridare cioè la vita a chi non la meriterebbe, non può essere equiparato a ogni altro dono. Si tratta di un dono straordinario, per questo inventa la parola ‘per-dono’. È evidente quindi che fin dall’inizio il perdono ha a che fare con una situazione che spezza il corso ordinario della giustizia e si presenta come un’eccezione.
Perdonare ha dunque a che fare con quella capacità dell’uomo di ridare vita. A ben guardare però si tratta di ridare vita non solo a chi sarebbe giustamente da condannare, ma la vita è restituita anche a chi concede il perdono.
Il rancore e la vendetta immettono infatti dinamiche di morte nelle nostre relazioni, ci svuotano e ci inaridiscono.
La vita però non ha mai confini netti e non può essere contenuta nelle nostre previsioni, la vita ci sfugge e non è mai sotto il nostro controllo. In questo testo del Vangelo, Pietro è la voce di chi vuole mettere la vita dentro contenitori trasparenti: Pietro vorrebbe capire quando il perdono è definitivamente compiuto. Fino a sette volte! Il perdono, per Pietro, deve avere un limite, ci deve essere un punto in cui le cose sono chiare.
Gesù insegna a Pietro che il perdono, come ogni altra cosa nella vita, ha inevitabilmente un esito incerto: fino a settanta volte sette…vuol dire senza compiersi mai definitivamente. Così come non si può smettere di respirare per vivere, così non si può smettere di perdonare. Le relazioni vivono solo se ci si continua a perdonare senza limite.
Proprio per questo, il perdono è un cammino dagli esiti sempre incerti: non sappiamo mai se l’altro accoglierà il perdono, se lo restituirà, non sappiamo neppure se lo chiederà o se lo vorrà. Ma questi interrogativi non riguardano il perdono, così come non ci chiediamo mai se dobbiamo ancora respirare per vivere.
Il perdono è efficace non se raggiunge il risultato, ma se immette dinamiche liberanti nella relazione.
Attraverso questa parabola, Gesù ci invita a riconoscere il fondamento del perdono: il servo, a cui è stato condonato il debito, dovrebbe fondarsi su quella esperienza per fare altrettanto con chi è un servo come lui. Al primo servo è stata condonata una somma inimmaginabile, diecimila talenti, se pensiamo che nella parabola dei talenti, il servo che ne riceve di più, ne riceve cinque (un talento equivale a circa 25 kg d’argento).
Se perdonare vuol dire ridare vita, il fondamento del perdono consiste allora nella gratitudine verso la vita. Riesce a perdonare solo chi è riconoscente per il dono della vita, solo chi si rende conto che siamo sempre in debito verso la vita.
In altre parole, perdonare vuole dire sempre chiedersi cosa ne faccio della vita che mi è stata consegnata.
Non a caso il primo dono di Gesù risorto sarà il perdono (Gv 20,22-23): ridare vita, ovvero risorgere e far risorgere, è la stessa cosa di perdonare. Perdonare vuol dire permettere a se stessi di risorgere, di tornare a vivere, per poi permettere anche ad altri di fare la stessa esperienza.
La parabola raccontata da Gesù mostra anche che le dinamiche dentro la comunità, a qualunque livello, si bloccano proprio per la mancanza di perdono: il conflitto tra le generazioni, le divisioni nella Chiesa, le tensioni dentro i gruppi. Quando manca il perdono, l’amore non passa più.
Per indicare i servi della parabola, Matteo usa un termine specifico che letteralmente significa ‘servo-insieme’: condividiamo la stessa condizione umana, siamo servi nello stesso modo, siamo compagni in una missione comune che è la vita. I servi-insieme non sono solo spettatori, ma si adoperano per la giustizia, portano allo scoperto quelle situazioni in cui la vita si è bloccata, denunciano chi non imita più il padrone. Se Dio è colui che dona vita, i suoi servi sono chiamati a fare altrettanto. E a noi è affidata la missione di dare vita per mezzo del perdono.
Il perdono non è solo una fatica o un impegno, il perdono è l’unico modo che abbiamo per vivere in pienezza.
Leggersi dentro
- Cosa sperimenti quando non riesci a perdonare?
- Hai fatto l’esperienza di essere perdonato?
Non ho mai fatto esperienza di ricevere perdono, in compenso ho perdonato molto… Adesso mi tocca un perdono molto difficile…ma sto prendendo tempo e respiro….
Il tormento e l’inquietudine permangono nel mio cuore; albergano quando non perdono. Quando mi distacco per un po’, riesco a trovare piu’ serenità. Il tempo, a volte, aiuta a stemperare oppure a cristallizzare ed enfatizzare il conflitto, senza nessun riferimento con la realta’ oggettiva. Gettare i ponti non e’ così facile ma guardare la fragilita’ dell’altro, cambia prospettiva. Un abbraccio
” Nulla fa avvizzire tanto l’anima quanto l’incapacità di perdonare,
frutto velenoso della sofferenza e dell’orgoglio, che brama vendetta
sotto le sembianze della giustizia “. ( J. I. PAKER )
TRENTOTTESIMO INSEGNAMENTO
…Che cosa significa, in sostanza, perdonare ? Non significa soltanto scusare quelle
cose che non possono essere facilmente scusate: il perdono è qualcosa di più.
Quando scusiamo qualcuno, mettiamo da parte il suo errore e non lo puniamo
per averlo commesso. Quando perdoniamo, non solo cancelliamo una
mancanza nei nostri riguardi, ma abbracciamo chi ne è stato responsabile,
proprio come ha fatto il Padre con il figlio prodigo…
Il nostro perdono potrà anche non essere accettato, ma aver teso la mano ci avrà
liberati da ogni risentimento. Possiamo rimanere profondamente feriti, ma non
usiamo la nostra ferita per infliggere ulteriori sofferenze ad altri…
Possiamo pregare tutto il giorno, ma se serbiamo rancore, la porta di Dio
rimarrà chiusa…
4. Il perdono comincia dalle piccole cose della vita quotidiana ( marito, figli,
colleghi )…