Meditazione
per la sesta domenica del T.O. anno C
17 febbraio 2019
«Due strade divergevano in un bosco d’autunno
e dispiaciuto di non poterle percorrerle entrambe,
essendo un solo viaggiatore, a lungo indugiai
fissandone una, più lontano che potevo
fin dove si perdeva tra i cespugli».
Robert Frost
I bivi della nostra vita
La vita ci mette continuamente davanti a delle alternative tra cui scegliere. Ci ritroviamo continuamente davanti a un bivio. La filosofia, secondo alcuni interpreti, inizia proprio così, da quel poema in cui Parmenide si trova davanti due strade, quella dell’opinione e quella della verità, una che porta verso la superficialità ingannevole e l’altra che conduce alla pienezza della vita intellettiva. Occorre scegliere!
Troppo spesso indugiamo, lasciando che la vita scelga per noi. La realtà si presenta talvolta ambigua e complessa e soprattutto facciamo fatica a intravvedere il punto d’arrivo. Eppure abbiamo la responsabilità mentre siamo davanti a quel bivio, nel nostro punto di partenza, di raccogliere tutte le informazioni necessarie per poter decidere da che parte andare.
Per quanto difficile, non possiamo nascondere che il criterio fondamentale delle nostre scelte è quello di essere felici. La via migliore è certamente quella che ci porta verso un vita pienamente realizzata. Siamo infatti simili a un cespuglio che cerca acqua, come descritto da Geremia nella bellissima immagine che usa nel capitolo 17. La vita è sempre ricerca di una fonte per poter sopravvivere, ma a volte andiamo a cercare l’acqua proprio dove non c’è, stazioniamo accanto a pozzi avvelenati o confidiamo in chi ci promette un’acqua che non ci darà mai.
La lezione di Gesù sulla felicità
Come nel Vangelo di Matteo, anche in quello di Luca Gesù riserva una lezione specifica alla domanda fondamentale che ogni uomo si porta nel cuore da sempre: il desiderio di essere felice.
Se nel racconto di Matteo, Gesù saliva su un monte – come Mosè che saliva sul Sinai per ricevere da Dio la Legge – in quello di Luca, Gesù è in un luogo pianeggiante e, per parlare alla gente, deve alzare gli occhi, quasi come se fosse più in basso, come se si mettesse umilmente al di sotto, ma anche come chi lascia emergere le sue parole dalla preghiera che sta rivolgendo al Padre.
La felicità ci sta a cuore e ci affanniamo a trovare ricette per una vita realizzata. Fin dal mondo antico, i filosofi hanno provato a dare risposta a questa domanda, eppure Gesù non usa qui lo stesso termine usato ordinariamente tra i sapienti greci per parlare di felicità. Aristotele, per esempio, usava il termine eudaimonia, e parlava di felicità come quel bene ultimo che cerchiamo di raggiungere mediante i nostri comportamenti. Ogni azione è finalizzata quindi a raggiungere quella meta ultima.
Gesù usa invece l’aggettivo macharioi, invitando a riconoscersi fin d’ora felici, non perché si fanno delle cose meritevoli o virtuose, ma perché ci si trova in situazioni tali che consentono di essere felici. A ben guardare sono tutte situazioni in cui sperimentiamo un vuoto, una mancanza, un’assenza. Al contrario, le situazioni in cui non siamo felici, situazioni che Luca aggiunge rispetto alla versione di Matteo, sono quelle in cui siamo saturi, pieni e autosufficienti.
Sembra dunque che per Gesù la felicità consista in uno spazio in cui Dio può entrare. Chi è povero, manca del necessario, cioè non è autosufficiente, non è chiuso in se stesso, ha bisogno di chiedere, è costretto a rendersi conto di aver bisogno degli altri. I poveri sono qui gli ptochoi, coloro che possono contare solo su Dio. E proprio questo li rende felici. Non sono i poveri che ostentano la loro povertà, perché questo termine viene infatti da un verbo che significa propriamente nascondersi. Chi è povero sa ricevere, sa accogliere, ha l’umiltà di lasciarsi aiutare. Siamo poveri quando lasciamo che Dio si manifesti nella nostra vita.
Allo stesso modo, la fame e il pianto di cui parla Gesù sono reali. È la fame che egli stesso ha sperimentato nei quaranta giorni nel deserto, così come il pianto sarà quello che sperimenterà più tardi davanti alla morte dell’amico Lazzaro.
Povertà o ricchezza?
Solo chi è povero sa ancora desiderare, sa sperimentare quella incompletezza che continua a farci camminare e sentire vivi. Chi invece è ricco non sente più alcuna spinta. Quando abbiamo tutto, siamo infelici, perché non siamo più capaci di desiderare, non abbiamo più motivi per andare avanti nella vita, diventiamo depressi. Il ricco è la triste immagine di chi spera che nulla cambi, il povero invece è colui che spera nel cambiamento, colui che non sta fermo e non si accontenta.
Per Gesù la felicità è il Regno, ma a differenza della prospettiva di Aristotele, questo sommo bene non è da guadagnare o da raggiungere. Il Regno è ricevuto, accolto, riconosciuto.
Nella meditazione sulle due bandiere, al n. 142 degli Esercizi spirituali, Sant’Ignazio individua nella ricchezza il primo gradino che spinge l’uomo verso tutti gli altri vizi, al contrario Cristo chiama alla povertà e da qui a tutte le altre virtù: «Vi sono perciò tre scalini: il primo è la povertà opposta alla ricchezza, il secondo l’umiliazione e il disprezzo opposti al vano onore del mondo, il terzo l’umiltà opposta alla superbia; da questi tre scalini li guideranno a tutte le altre virtù» (Esercizi spirituali 146).
Leggersi dentro
– Qual è il tuo ideale di felicità?
– Sai stare nelle situazioni di povertà o cerchi continuamente di difendere le tue ricchezze?
Versione originale su clerus.va
Sperimento libertà interiore e felicità ogni volta che lavoro sull’ESSERE, per portarmi a compimento, senza perfezionismi, accettandomi come sono,
spogliandomi del mio falso me, dei pregiudizi e precomprensioni, attese e desideri egoici, dal giudizio degli altri e dal bisogno di essere notata e riconosciuta.
La vita spirituale è molto semplicemente la vita, ordinaria quotidiana, ma vissuta più intensamente, aprendo su di essa occhi capaci di leggere dentro le cose.
Io oscillo continuamente tra l’io egoico e l’io cristico, ma osservare le ricadute nello stato egoico possono rivelare il funzionamento dell’ego, con le sue catene di pensieri cui do credito e che si dissovono se osservati e riconosciuti.
Per me è soprattutto difficile liberarmi dalla mia mancanza di autostima da quelle cose che metto sopra questa ferita illudendomi di farla sparire invece mi autoescludo dal regno di Dio.
Una delle attenzioni cui mi sono scontrato è la prevaricazione o inascoltato da chi dovrebbe, con il rischio da renderti povero di sostanze materiali, e forse, di conseguenza quelli spirituali.
Difendere la gestione equivalente ad una esistenza materiale dignitosa è doveroso, verso se stessi e soprattutto verso chi ci è vicino. Nella mia specifica costruttiva è presente la voce condividi; se manca sarà possibile aggiungerla nel tempo?
La felicità può scaturire dalla felicità attivata dal punto di incontro del tuo dare col ricevente. Ti impregna come un dolce immerso in un liquore altamente alcolico. Tempo e l’alcol evapora fino al prossimo punto di incontro.
Caro Giuseppe è beloo quello che dici della felicità che scaturisce dalla felicità attivata dal punto di incontro del tuo dare col ricevente.
Ti impregna come un dolce immerso in un liquore altamente alcolico …
Ogni incontro molto concreto, nella banalità del quotidiano, con i famigliari o durante la fila alla cassa del supermercato, può trasformarsi in un incontro sulle alte frequenze dello spirito quando disarmiamo il cuore e lasciamo operare.
Lo spirito opera attraverso le persone nel segreto di ogni uomo … quindi dove incontro Dio? nel prossimo se appena apro il cuore … rinuncio a identificarmi con le mie idee su di me ecc … .
Grazie durante la settimana mi impegno in questa pratica !
Credo che quando si riesca ad apprezzare l’amore per gli affetti piu’ profondi, nasce dentro di se’ un appagamento che fa comprendere cosa e’ piu’ importante e, di sicuro, cio’ che sostiene questo inno alla vita e’ il camminare con Dio sempre; rendergli Grazie.