Comunicazione – amore – spreco
G. Piccolo
Come preti siamo particolarmente coinvolti nelle dinamiche comunicative, sia a un livello relazione sia a un livello teologico.
Serafino di Sarov dice: “trova la pace e migliaia intorno a te troveranno salvezza”. Sul piano relazionale il nostro vissuto interiore interagisce continuamente con le vite degli altri, ne siamo responsabili. Molte persone si allontanano dalla fede per la durezza o l’incomprensione che ha vissuto nella relazione con il sacerdote.
Vorrei ricordare anche Levinas quando dice: “la responsabilità per l’altro mi incombe”, non è qualcosa che scelgo di vivere o non vivere, sono piuttosto costantemente responsabile della mia interazione con l’altro.
Sul piano teologico, predichiamo (e già questo verbo mette al centro la dimensione comunicativa) un Dio che ha scelto di comunicarsi. È ovvio, ma inevitabile, il rimando al prologo di Giovanni: sebbene il Logos di Giovanni sia stato tradotto in latino con verbum o in italiano con parola, forse era più corretta la traduzione che ne faceva Erasmo da Rotterdam, dicendo che in principio era il ‘sermo’, il discorso, il parlare, l’azione stessa del comunicare.
Il termine stesso comunicazione ci rimanda ad una relazione: l’etimologia più probabile di questa parola, la fa derivare da cum-munus, cioè portare insieme una responsabilità, condividere un impegno, ma anche un dono (da munus viene munificente, munifico).
Siamo uomini di comunicazione, ma non solo a parole.
Oggi sappiamo che solo il 7% della comunicazione viene veicolato attraverso le parole, mentre il 53% è veicolato dalla comunicazione non verbale (gli sguardi, i gesti, le reazioni), la parte restante è legata invece al tono, alla punteggiatura delle nostre espressioni.
Tutto questo ci rimanda ad una convinzione che è molto presente, sebbene in modi diversi, tanto nel pensiero greco che nel vangelo: la comunicazione è una metafora dell’amore. Se guardiamo al modo in cui comunichiamo, ci rendiamo conto del modo con cui amiamo: “dimmi come comunichi e ti dirò come ami”.
Nella comunicazione consegniamo agli altri il nostro vissuto interiore: molto spesso non ne siamo consapevoli, non prestiamo attenzione a quello che sta accadendo dentro di noi, non ce ne prendiamo cura, e finiamo con il consegnarlo agli altri in maniera grezza, spesso ferendo le persone con cui entriamo in comunicazione. A. Schopenhauer dice che siamo come porcospini, con i nostri aculei rischiamo di farci male reciprocamente, possiamo però trovare la giusta distanza per stare vicini, scaldarci, evitando di farci del male.
Il mio invito è di prenderci maggiormente cura del nostro mondo emotivo. Per lo più siamo analfabeti delle emozioni, e facciamo fatica a dare un nome a quello che sta avvenendo dentro di noi.
Le emozioni sono energia cieca che ci abita e che non dipende da noi. Le emozioni ci abitano e ci spingono: non siamo responsabili della rabbia o della passione che sentiamo. Possiamo però decidere cosa farne.
F. Nightingale, l’iniziatrice del servizio infermieristico, disse una volta che ciò che l’aveva spinto ad intraprendere quell’avventura era stata la rabbia, la rabbia che provava davanti alla condizione dei malati. Quella rabbia avrebbe potuto innescare in lei altri tipi di reazioni, ma Florence decise di usare quella energia in modo costruttivo.
Un esercizio che potrebbe aiutarci: proviamo a riconoscere il nostro stile comunicativo.
Uno stile passivo:
– Tendo a nascondere i miei pensieri e i miei sentimenti;
– Non difendo i miei diritti;
– Non esprimo i miei bisogni, le miei opinioni; i miei desideri.
Chi ha uno stile comunicativo passivo tende a chiedere continuamente ‘scusa’, dice ‘non vorrei disturbare’, ‘facciamo come vuoi tu’…
Sono persone che tendono ad evitare i conflitti, a rimandare le decisioni, ad evitare l’ansia di mettersi in gioco…
Queste persone sono accompagnate da sentimenti di ansia, di insoddisfazione, ma anche di rabbia ed è per questo che prima o poi scoppiano e vengono fuori con comportamenti aggressivi che non ci aspetteremmo.
Ci sono invece persone che hanno ordinariamente uno stile comunicativo aggressivo:
– Non ammettono mai di avere torto;
– Non lasciano spazio agli altri;
– Non rispettano le opinioni e gli stati d’animo dell’interlocutore;
– Non manifestano le proprie emozioni, se non in contesti poco appropriati.
Un atteggiamento tipico dell’aggressivo è l’etichettamento: sei un… somiglia a… oppure “te l’avevo detto io..”, “se non ci fossi io…”.
La persona aggressiva è in genere una persona che non si fida degli altri e che ha una falsa autostima: è il gatto che si guarda allo specchio e si vede come un leone, ma in fono in fondo sa di essere solo un gatto.
La persona aggressiva, a lungo andare, si sente in colpa e prova vergogna. Per questo va in tensione, perché cercherà di nascondere a se stesso i motivi della propria vergogna.
Possiamo cercare di diventare più assertivi nella nostra comunicazione. Essere assertivo vuol dire comunicare liberamente il proprio vissuto in maniera onesta e cercando di non ferire l’altro. Questo richiede di essere in contatto con il proprio vissuto interiore, prenderci tempo, elaborare ciò che sto vivendo e restituirlo all’altro.
La persona assertiva parla a partire da sé: “sento che le tue parole mi feriscono…”; “io, al tuo posto, avrei preso una decisione diversa”; “correggimi, se sbaglio, ma nelle tue parole sento rabbia…”; “capisco il tuo dispiacere, ma non credo di…”.
Nel nostro modo di comunicare consegniamo dunque il nostro mondo interiore.
Su questo modo di consegnarsi siamo, a mio avviso, più greci che cristiani.
La nostra cultura ha fatto della reciprocità un valore fondamentale: la reciprocità è buona educazione. Mi fai un regalo, mi sento in dovere di restituire. Mi fai un torto, mi sento giustificato a vendicarmi. E, sul piano politico: facciamo mettere le moschee se nei loro paesi ci fanno costruire le chiese.
Questa idea di comunicazione/amore come reciprocità è ben presente nel pensiero di Platone, dove Socrate si sceglieva i suoi interlocutori: dialogava, sì, ma con persone che lui sceglieva. Proprio per questo, Socrate decide di non scrivere, perché la scrittura implicava una consegna nelle mani di chiunque fosse venuto in possesso del testo scritto.
Nei Vangeli invece non c’è traccia di reciprocità: lo stile di comunicazione/amore dei Vangeli può essere definito con le parole disseminazione o spreco.
Le parabole stesse, come genere letterario, hanno questa caratteristica: para-ballein, gettare, spargere, perché è l’interlocutore che ha la responsabilità di raccogliere e capire.
Ovviamente il modello di questo modo di comunicare/amare è la parabola del seminatore (Matteo 13, Marco 4, Luca 8), dove il seminatore getta il seme su ogni tipo di terreno, non solo sul terreno da cui si aspetta di avere un buon raccolto. Non c’è reciprocità tra il gesto del seminatore e le capacità dei diversi tipi di terreno.
Non c’è reciprocità tra il lavoro degli operai della vigna e il salario elargito dal padrone (Mt 20,1-16). Non c’è reciprocità tra le 99 pecore lasciate dal pastore e quell’unica pecora di cui il pastore va in cerca. Non c’è reciprocità tra la dissolutezza del figlio minore e l’abbraccio del padre di Lc 15.
La categoria per rileggere lo stile di comunicazione/amore del Vangelo è piuttosto lo spreco: lo spreco dell’unzione di Betania (Mc 14,1-11). Una donna ha capito ciò che sta per accadere a Gesù, ha riconosciuto la sua ansia, anticipa il gesto con cui Gesù sta per comunicare il suo amore. L’unico gesto che può interpretare il gesto di Gesù è lo spreco: rompere quel vasetto di alabastro, sprecare per comunicare l’amore. Non solo la vita di Gesù, ma la vita di ogni altro, è una vita che non ha prezzo.
Rimane allora la domanda inziale: cosa comunico di me? Cosa dice di me il mio modo di comunicare? Come posso rendere più evangelico il mio stile di comunicare/amare?