Meditazione sul Vangelo
della XXVI domenica del T.O. anno A
1 ottobre 2017
Mt 21,28-32
Solo il tempo rivela l’uomo giusto;
il malvagio, invece, lo riconosci in un giorno solo.
Sofocle, Edipo Re
La relazione con il padre è da sempre il luogo in cui avvengono le cose più profonde, ma anche quelle più dolorose. È la chiave per capire quello che avviene dentro di noi. È nella relazione con il padre che ci accorgiamo della differenza tra quello che mostriamo e quello che ci abita veramente: la ribellione spesso nasconde il desiderio di essere amati, il rifiuto talvolta copre l’invidia, la sfida sublima la paura del confronto.
Nella celebre tragedia di Sofocle, Edipo scopre suo malgrado di non essere quello che gli altri credono: laddove è cercato ed esaltato come salvatore della Patria, come il Re che può liberare la città dalla peste, sarà invece costretto a riconoscere che è lui stesso la causa della sciagura. Edipo è colui che non si conosce perché non vede chiaramente la sua relazione con il padre.
Ma l’antefatto della tragedia è altrettanto importante: Edipo è stato venduto dal padre, il Re di Tebe, per scongiurare il compimento di una profezia, secondo la quale egli sarebbe stato ucciso dal figlio. Si tratta di una profezia che non può non avverarsi, perché, come Freud ci insegnerà, è inevitabile che il figlio uccida il padre per potergli sopravvivere. Il padre è sempre l’immagine del rivale che ci impedisce di esistere. Nella tragedia di Sofocle, Edipo uccide il padre, senza saperlo, e involontariamente sposa la madre: come a dire che solo uccidendo il padre, Edipo può realizzarsi come uomo.
Anche nella parabola che Gesù racconta emerge l’ambiguità della relazione con il padre: più che due figli, sembra che Gesù indichi due atteggiamenti ugualmente presenti dentro di noi, da una parte la protesta, dall’altra il compiacimento. Spesso le nostre proteste sono infondate, sono in realtà solo un modo per esprimere il nostro bisogno di essere amati. Anche i bambini, ad un certo punto della loro crescita, hanno bisogno di dire no, spesso in modo immotivato, solo per segnare uno spazio personale e dire che ci sono con la loro volontà. Forse anche per il primo figlio della parabola, il rifiuto è un modo per rivendicare la sua esistenza.
In noi c’è però anche il compiacimento, spesso causato dalla paura o dal timore di perdere l’affetto. Diciamo sì anche quando non lo vogliamo per paura di infastidire, di dare una frustrazione all’altro o per evitare che la relazione si spezzi. La protesta e il compiacimento, come Gesù ci fa vedere, spesso non sono comportamenti autentici.
Tutto questo non può non ricadere anche nella relazione con Dio che si presenta come padre. Gesù sta pensando probabilmente a quella parte del popolo di Israele che è ossessivamente concentrata sui doveri da esplicare per ottenere il favore di Dio. Gesù richiama l’attenzione sul fatto che talvolta questa osservanza esterna può non essere congruente con quello che si prova nel cuore. Anzi, molte volte l’ostentazione di un rigore e un’ascesi esterne servono a nascondere a se stessi e agli altri quello che si prova veramente nel cuore: «Questo popolo mi onora con le labbra ma il suo cuore è lontano da me», aveva detto poco prima Gesù, in Mt 15,8, citando il profeta Isaia.
Anche da un punto di vista psicologico, sappiamo che l’osservanza esterna è spesso una struttura che ci costruiamo o in cui ci rifugiamo per evitare di guardare quello che c’è veramente dentro di noi. I pubblicani e le prostitute, a cui Gesù fa riferimento, sono coloro che sono privi dell’abito della legge, sono trasgressori, sono visti e si vedono nella loro nudità, per questo motivo possono essere più sicuri della loro autenticità.
La parabola che Gesù ci racconta, ci invita in qualche modo a metterci a nudo, a spogliarci per un attimo delle strutture e dei ruoli, delle abitudini e dei riti, per guardarci così come siamo, nella profondità complessa e misteriosa della nostra relazione con il Padre.
Leggersi dentro
– Tendi più alla protesta o al compiacimento?
– Quanta coerenza c’è tra come appari e ciò che ti porti nel cuore?
L’atteggiamento del primo figlio è un atteggiamento di discernimento cui perviene sicuramente dopo se pur breve riflessione . La richiesta del padre in quanto tale , lo destabilizza in un primo momento contrapponendosi al suo desiderio di una scelta libera o sbagliata ma comunque sua. Il secondo figlio è nella stessa posizione di ribellione alla volontà del padre ma nn desidera noie né rotture. Si lascia vivere passivamente senza crescita né valori veri. I comportamenti di questi figli sono entrambi dentro di noi .Soltanto dall’interazione ,dal dialogo , da ciò che nn è negoziabile e con figure di riferimento adeguate potremo cominciare il nostro cammino.
L’ha ribloggato su GET UP and WALK.
Faccio quello che non voglio… Mi viene in mente San Paolo.
In realtà’, ci tengo ad ESSERE ed a FARE come ritengo giusto. Ma non sempre lo e’.
Non amo chi si impone e, di sicuro, Dio non lo fa ma gli uomini si.
E’ un mondo di relazioni tendenzialmente all’autoaffermazione, dove Dio non c’entra o, perlomeno, molto di striscio.
Quei due figli siamo noi, in perenne contraddizione tra noi. Sempre alla ricerca della posizione più comoda, sempre attaccati a quello che più ci piace e che “ci fa avere ragione”. Uomini e donne ….un risultato non semplice per il ragionamento di un Dio giusto.