Meditazione per la III domenica del T.O. C
27 gennaio 2019
Le parole sono vasi eletti e preziosi e possono essere riempiti di qualunque cosa anche del vino dell’errore.
Agostino, Confessioni
La potenza della parola
«Era un leone. Immenso, irsuto e luminoso, stava di fronte al sole appena sorto e aveva la bocca aperta nel canto» e attraverso questo canto, Aslan, il leone, ridesta la vita. È l’immagine usata da C.S. Lewis ne Le cronache di Narnia per descrivere la creazione. La parola dà vita.
La Bibbia ci ricorda fin dall’inizio questa ricchezza presente nella parola, Dio crea per mezzo della parola e da quel momento anche le nostre parole – la nostra capacità di dare nome alle cose – diventano una manifestazione di quella potenza. Dio si è raccontato mediante parole umane. A Israele ha consegnato le parole di vita, la legge, quelle parole che tracciano la strada da percorrere.
Questa potenza della parola spiega il pianto di gioia che il popolo prova – come narrato nel libro di Neemia – quando ascolta le parole che Dio ha donato. Il popolo sta tornando dall’esilio, è affaticato, scoraggiato, deluso, ma ascoltare quella parola di misericordia permette di ritrovare forza. Il popolo si rende conto che non può vivere senza fare memoria di quella promessa. La parola di Dio infatti si compie ogni volta che viene ascoltata. Le nostre assemblee sono oggi, ogni volta, il luogo in cui la Parola di Dio continua a incarnarsi.
La coerenza della parola
Davanti a questa riverenza per la parola, il nostro tempo si presenta invece come l’epoca della parola superficiale e presto dimenticata. La parola è usata in modo rapido, volgare, immediato. E le parole, le promesse, sono spesso archiviate. Forse se vogliamo cercare le radici della crisi del nostro tempo, dovremmo cercarle proprio nella relazione con le parole.
Come mostra anche il brano del Vangelo di Luca, quando Dio parla si impegna. La parola è sempre anche un fare qualcosa: è una promessa, un ordine, un desiderio… Non è un caso dunque che in questo testo Gesù dica che proprio oggi la parola si compie, nel momento stesso in cui la pronuncia. Proprio oggi, come per Zaccheo, quando la salvezza entra in casa sua nel momento in cui ascolta la parola che Gesù gli rivolge. Siamo messi così davanti al modo in cui noi usiamo le parole, al modo in cui ci impegniamo nelle promesse, alla sincerità del modo in cui esprimiamo il nostro parere.
La parola ci compromette
Il discorso che Gesù pronuncia nella sinagoga di Nazareth è l’incipit di una sorta di omelia o di commento che ogni israelita era chiamato a tenere al termine della lettura del testo sacro. Per i predicatori può essere utile notare lo stile di Gesù: egli parla di sé, si mette in gioco, si compromette. A volte, le nostre omelie sono riflessioni fredde e impersonali, il predicatore invece è il primo che dovrebbe lasciarsi ferire dalla parola, come Papa Francesco ci ha suggerito nell’Evangelii gaudium.
Si tratta, è vero, di una sorta di discorso programmatico di Gesù, in cui egli dice chi vuole essere, ma nel Vangelo di Luca questo discorso segue all’episodio delle tentazioni, dove, con la sua stessa vita, Gesù ha già detto che tipo di Messia vuole essere, un Messia che rifiuta la logica del privilegio e del compromesso con il male: Gesù non trasforma le pietre in pane solo per soddisfare se stesso né si butta giù dal tempio per sfidare Dio e neppure si inginocchia davanti al tentatore per riceverne in cambio i regni della terra. Privilegio e compromesso con il potere: anche qui troviamo un’ulteriore radice della crisi del nostro tempo.
Gesù annuncia l’azione di Dio, ma nel contempo si fa azione. C’è una coerenza intima tra la sua parola e la sua azione: non dice solo di essere mandato ai poveri, egli va dai poveri, non proclama solo la liberazione dei prigionieri, ma libera i prigionieri, non annuncia solo la vista ai ciechi, ma ridà la vista ai ciechi…
Troppe volte la parola è usata invece con superficialità, senza tener conto delle sue conseguenze né della nostra capacità di portarla a compimento. La parola vera è frutto di un discernimento.
La parola da cui partire
La parola più difficile è quella che pronunciamo nei luoghi più familiari, dove siamo conosciuti, dove sono palesi le conseguenze dei nostri proclami. Gesù inizia la sua predicazione proprio dalla sua terra, forse per insegnarci che la missione non è mai una fuga. So per esperienza che i luoghi più ardui in cui portare il Vangelo sono la propria famiglia e la propria comunità, cioè i contesti in cui continuamente la parola è messa alla prova, ma è proprio da lì che occorre ricominciare.
Leggersi dentro
– Quale spazio e quale atteggiamento riservi all’ascolto della Parola di Dio?
– Usi le parole con superficialità o ti prendi cura di quello che dici?
Versione originale su www.clerus.va
Grazie per il commento inviatomi. Ne farò tesoro per me e per quanti avrò la giia di incontrare
Domenico
GRAZIE! I miei allievi ed io ne faremo tesoro. Ritorna l’impaginazione precedente, questa cattura lo sguardo oltre il cuore lo spirito e la mente.
Grazie per la tua riflessione… Essere donne della Parola ma anche donne che veicolano la Parola, tutte le altre sono parole inutili che non costruiscono ma dividono. Grazie!
Grazie per la bellissima riflessione! Un grazie particolare per il ritorno alla grafica iniziale!!!!
Io uso le parole per narrare me stesso, la mia storia. La uso per andare in profondita’, poche volte, per sprecarla. E quando e’ successo, ha creato solo caos e malintesi. Bisognerebbe pesare di piu’ le parole.
Ricordo una frase: “L’assenza di parola crea la solitudine”. La completerei così: “L’assenza di parola e o di ascolto porta all’isolamento”.
A volte, è la parola che rompe e svapora l’involucro oppressivo, e ci salva. L’educazione al dialogo. L’educazione all’ascolto. Migliorano la superficialità di ciò che si pensa e si dice.
Penso, in questo tempo straboccante di immagini, parolai, la difficoltà è incontrare maestri terreni che ti insegnano ad ascoltare con attenzione il Maestro e così vincere la torpidézza cui è adagiato l’animo. Accompagnare tramite la dialettica, dall’isolamento ad una solitudine riflessiva.