Meditazione
per la Solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo (anno C)
29 maggio 2016
Lc 9,11-17
Non fare regali a un bambino
fino a quando non ha imparato a distinguere
un sasso da una noce.
Proverbio ebraico
La Bibbia potrebbe essere riletta come un’educazione al mangiare. All’inizio c’è una dieta varia, ma con indispensabili limitazioni: di tutti gli alberi potrai mangiare tranne…Ma i limiti e le proibizioni scatenano la fantasia e l’audacia. E spesso si diventa vittime di venditori astuti che presentano i loro prodotti con proposte accattivanti e irresistibili.
La fame è un’immagine di ciò che siamo: siamo mancanti. Ospitiamo sempre un vuoto da riempire. Un vuoto che non si riempie mai una volta per sempre. Non siamo mai autosufficienti, mai definitivamente soddisfatti, ma sempre in cerca di qualcosa che possa colmare il languore che sentiamo.
Quando abbiamo fame, sentiamo una spinta a cercare: cerchiamo perché abbiamo paura di morire. È vero, quando non abbiamo più voglia di vivere, smettiamo di cercare, ma è anche vero che più è forte la paura di morire più ci accontentiamo di mangiare la prima cosa che troviamo, anche se ci fa male, anche se sappiamo che ci farà male.
Non sempre riusciamo a gestire questa paura di morire di fame. Ma è proprio davanti a questa paura che Gesù dice, alla fine del Vangelo, prendete, senza restrizioni, mangiate, non hai più bisogno di andare a caccia, non hai più bisogno di cercare surrogati, non hai più bisogno di mangiare di nascosto, questo è il mio corpo, questa è la vita che cerchi, il cibo che colma la tua fame.
Il testo di Luca è una tappa di questo cammino: come i Dodici, anche noi forse abbiamo sempre pensato che il cibo si compra e si vende, siamo convinti che l’affetto si conquista e si ricambia, siamo persuasi che nella vita ci si afferma o si perde. I Dodici suggeriscono a Gesù di lasciare che la gente vada a comprarsi il pane. Gesù cambia il verbo: non più comprare ma date/donate da mangiare. La vita si dona e si riceve non si compra o si vende.
Cambiare questo verbo vuol dire cambiare la dinamica della storia: Giacobbe aveva mandato i suoi figli in Egitto a comprare il grano, perché nel paese c’era una grande carestia. Ma i figli di Giacobbe, mentre pensano di andare a comprare il pane, stanno andando invece a incontrare il fratello, quel Giuseppe che hanno venduto. La riconciliazione ci può essere solo uscendo dalle logiche di mercato.
Facciamo fatica a cambiare verbo perché siamo preoccupati della nostra fame: intanto mangio io…; ce ne sarà per me?
I Dodici non hanno il coraggio di confessare che avevano pensato a loro stessi: cinque più due è il sette che sazia, la pienezza che mi rassicura. E non vedo l’ora di rimanere solo per mangiare. In fondo è un mio diritto. Del resto cosa potrei fare?
Quando sei in mezzo al deserto ed è ormai sera, torna la paura di morire. Il primo pensiero è come sopravvivere. Sono i tempi della vita in cui ti senti smarrito e vorresti essere rassicurato. Quando le cose funzionano, ci dimentichiamo della nostra fame, ma prima o poi arriva il momento in cui il languore diventa voragine e non è più sopportabile.
Se la fame è un’immagine della nostra mancanza, il modo in cui la riempiamo è un’immagine della nostra relazione con il mondo: c’è chi pensa solo alla propria fame, c’è chi divora gli altri/cibo, c’è chi guarda sempre nel piatto degli altri, c’è chi si rifiuta di mangiare.
Anche in questo senso, il testo di Luca è una tappa di questa educazione al mangiare: innanzitutto ci si mette sdraiati, non si mangia più in fretta come la notte di Pasqua in Egitto, perché non siamo più schiavi della paura di morire, non abbiamo più bisogno di scappare o di andare a caccia di cibo. Possiamo metterci tranquilli perché il cibo che ci sfama è con noi.
La gente non sa da dove venga quel cibo, lo sanno solo i Dodici. La vita c’è, gratuitamente, immeritatamente, la ricevi e basta. E Luca, senza troppa enfasi, opera un piccolo scivolamento dei termini: non sono più i Dodici a distribuire il pane e i pesci, ma i discepoli, cioè tutti noi, da quel momento i poi. Siamo noi che lasciamo che la vita passi. E a differenza dei verbi che descrivono la preghiera di Gesù, che sono a un tempo verbale che indica un’azione avvenuta una volta per sempre (aoristo), il verbo dare è all’imperfetto: dice che da quel momento in poi i discepoli hanno continuato a distribuire il pane e i pesci.
Eppure, la vera domanda è un’altra: questo testo di Luca, in cui Gesù divide il pane e i pesci, è racchiuso tra due domande diverse che riguardano Gesù stesso. Prima c’è la curiosità terrorizzata di Erode: chi è costui che fa tali cose? Mentre dopo la distribuzione del pane e dei pesci c’è la domanda che Gesù fa a Pietro e ai suoi compagni: ma voi chi dite che io sia?
Trovare la risposta alla propria fame più profonda non è altro che scoprire la risposta a questa domanda.
Leggersi dentro
– Di cosa hai fame in questo tempo della tua vita?
– Come cerchi le risposte alla tua fame?
Un cibo che colmi per sempre la nostra finitezza ,il nostro limite materiale ,un cibo che ci permetta di sopravvivere ai bisogni materiali nn potrà saziare mai. Non potrà mai donarci la pienezza a cui interiormente aspiriamo e di cui sentiamo profondamente mancanza e nostalgia. Solo il Suo corpo e il Suo sangue possono saziare la nostra fame di Altro sviluppando capacità e forza per testimoniare e condividere nel quotidiano il suo progetto di Amore.
Il nostro rapporto con il cibo non può e non deve prescindere dal ricordo di chi non solo non ha cibo, ma non ha patria, non ha casa, e anche di chi, pur possedendo tutto questo, non ha la pace interiore. Viviamo in un mondo difficile nel quale viene sempre più a mancare la solidarietà, la pace, la comprensione dell’altro.
Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, soprattutto se riflessa negli occhi dei fratelli.
Quella fame è bellissima.
un padre che voleva insegnare al proprio figlio ad essere coraggioso, lo invitava a fare salti sempre più alti dai gradini della scala di casa. “Salta, che ti prendo” disse al piccolo che era sul secondo gradino e lo prese al volo, gioiosamente. “Salta!” ripetè ancora, mettendolo sul terzo gradino. Il piccolo dopo un pò di perplessità e paure balzò nuovamente e si tuffò tra le braccia del padre che lo aspettavano. La scena si ripetè dal quarto ecc….finchè il bimbo saltò da un gradino molto in alto, ma questa volta il padre non lo prese. Non allungò le braccia, intenzionalmente si tirò indietro e il piccolo cadde col viso a terra. “Così imparerai a non fidarti di un altro, nemmeno se è tuo padre!” storiella ebraica
Padre Gaetano,
posso avere un suo contatto email? Mi scuso con tutti se utilizzo così questo spazio. Per me sarebbe già moltissimo dare un nome alla mia “fame”.
Grazie.
piccolo.g@gesuiti.it