meditazioni

Se l’unico fuoco che sappiamo portare nel mondo è quello delle bombe

Meditazione sul Vangelo

della XX domenica del T.O. anno C

14 agosto 2016

Lc 12,49-53

 

Ite inflammate omnia

Ignazio di Loyola

 

Se ti capita di entrare nella Chiesa di Sant’Ignazio a Roma, alza la testa e cerca il punto di vista giusto da cui guardare. Il soffitto è scomparso, vedrai le finestre che ti fanno scorgere direttamente il cielo: non c’è più ostacolo o barriera. Ma vedrai anche tante piccole fiammelle. È il fuoco della Parola di Dio che Ignazio chiedeva ai suoi figli, i gesuiti, di portare nel mondo. Negli angoli della volta, infatti, sono raffigurate quattro donne, che rappresentano i quattro continenti, quelli conosciuti all’epoca, le terre in cui portare il fuoco. E infatti il dipinto della volta è la trasposizione del versetto del Vangelo di Luca che corre intorno alle pareti: «Ignem veni mittere in terram, et quid volo nisi ut accendatur», sono venuto a portare il fuoco sulla terra, e che cosa voglio se non che sia già acceso (Lc 12,49).

santignazio

Il fuoco è un simbolo antico: è ciò che purifica e trasforma. Nella volta, Ignazio è dipinto con un abito nero, ma andando più avanti, nell’abside, Ignazio indossa un abito bianco: lo stesso fondatore della Compagnia di Gesù aveva compiuto, nella sua vita, un cammino di purificazione. Il fuoco che portiamo è il fuoco che trasforma innanzitutto noi stessi. Quale parola puoi portare agli altri, se prima non ti lasci trasformare da essa?

s-ignazio-semicupola

Sebbene il mondo si sia ampliato e abbiamo persino scoperto un continente in più, sembra che non abbiamo più nulla da portare. Siamo spenti. Abbiamo smarrito il fuoco del desiderio che può accendere altri fuochi, come diceva sant’Alberto Hurtado. Tutt’al più accendiamo piccoli fuochi per scaldare noi stessi. La torcia che corre e attraversa i continenti è rimasta un simbolo retorico dei giochi olimpici, di cui nessuno si domanda più quale sia il significato più profondo. Il fuoco si è spento perché non abbiamo più un motivo per cui ardere.

Nel Vangelo di Luca il fuoco è anche la luce da tenere accesa nei tempi di crisi. Il testo ci presenta infatti uno scenario di divisione e di conflitto. È proprio quello il tempo in cui la luce è più necessaria, il tempo in cui attendere con le lanterne accese. Nel tempo di crisi infatti veniamo fuori per quello che siamo, è il tempo in cui non riusciamo più a custodire e trattenere quello che abbiamo seminato nel cuore, ciascuno si rivela per quello che è.

Ecco perché la pace non è sincretismo o annullamento delle differenze. La pace comincia dalla verità. Il fuoco acceso mostra i nostri veri volti, fa vedere dove siamo, le posizioni che abbiamo assunto davanti alle cose. il fuoco distingue, porta chiarezza. È da lì, dalla luce, dalla verità dei nostri volti che possiamo ricominciare a fare pace. Nel buio della notte, dove tutto è oscuro, dove tutto si confonde, non ci può essere pace, ma solo ambiguità e retorica.

Pace e fuoco vanno tenuti insieme. La luce del fuoco permette di distinguere il grano dalla zizzania. Aiuta a mettere ordine e prendere decisioni. La pace comincia da questa chiarezza. La divisione che Gesù porta non è il conflitto, ma la verità. Non ci può essere verità senza distinzione. È la divisione dell’ordine, la divisione che mette ordine, quella che precede ogni decisione: occorre distinguere per unire, diceva J. Maritain.

La nostra cultura è afferrata dalla tentazione del sincretismo, dalla banalità dell’uguale, dal politically correct che evita di prendere posizioni, dalla paura di esporsi. Ed è proprio così che si lasciano covare i conflitti. Prendere posizione costa, ma solo così si costruisce la pace. Certo, forse non prendiamo posizione perché non abbiamo nulla da dire, perché il fuoco si è spento, perché non abbiamo più né desideri né idee. La fiaccola che doveva accendere altri fuochi ci è scivolata dalle mani.

Nella volta della chiesa di sant’Ignazio c’è anche un angelo che tiene in mano uno specchio: è un’allusione alla scienza dell’ottica, particolarmente fiorente nel ‘600. È il simbolo della cultura, del sapere, dell’educazione, come fuoco che illumina e porta verità e pace. E noi, oggi, quale fuoco stiamo portando nel mondo? Forse solo il fuoco delle mine e delle bombe? È davvero solo questo ormai il fuoco che siamo capaci di diffondere sulla terra?

 

Leggersi dentro

  1. Quale fuoco porti nelle tue relazioni?
  2. Come costruisci la pace?

6 commenti

  1. L’unico fuoco che mi sento di portare in questi giorni e nella mia vita è quello della misericordia e del perdono, a cominciare dai rapporti familiari. Le spade provocatoriamente lasciate dal Signore sono la prova alla quale ci sottopone, come fece con Giona, intestardito nel punire Ninive.
    Il fuoco che siamo capaci di generare è solo fuoco fatuo che si smorza davanti alla ragione vigilante che, molto dolorosamente, di fronte alle prove non ci deve mai abbandonare. Non è ipocrisia del politicamente corretto… credo sia ciò che dobbiamo fare per non autodistruggerci.
    Se il blog lo regge aggiungo le Conseguenze della guerra di Rubens, !637 Galleria Palatina. La Guernica del Seicento…

  2. Fuoco come fiamma viva che purifica e dona vita nuova ,fuoco che riscalda che porta calore e sicurezza . E’ questo il fuoco portato da Gesù perché si cominci a diffondere il Suo regno di pace e d’amore. Ma a distanza di 2000 anni non è questo il fuoco che infiamma i nostri cuori . E’ il fuoco doloso d’estate che ho imparato a conoscere fin da bambina nella mia terra e che distrugge i boschi e la natura . E’ il fuoco dell’egocentrismo disposto a tutto per realizzare se stesso.
    Il fuoco nella mi vita nasce dalla conversione alla Sua Parola e dal vivere ogni giorno nel quotidiano come Sua testimone .
    Ma per ardere e per incendiare il mondo abbiamo bisogno di tanti cuori e di tante mani che costruiscono ponti di solidarietà e misericordia. Ad gentes !

  3. Alcuni mesi fa uscendo sul balcone di casa notai in un vaso di una pianta un nido,
    arretrai accortamente, rientrai in casa, incominciai ad osservare periodicamente
    attraverso le imposte il comportamento dell’uccello che covava.
    Il nido, era stato costruito nel poco spazio disponibile tra quattro piantine grasse. . Nel breve periodo di osservazione notai che spesso l’uccello pizzicava con il proprio becco i fusti delle piante.
    Rimasi sconcertato!
    La risposta la ebbi nelle osservazioni successive quando il passerotto nato spiccò
    il suo primo volo e liberò il nido. Le piantine grasse, dopo un certo tempo, si erano
    accostate in tal modo da limitare lo spazio del nido.
    Trassi alcune considerazioni :
    1) L’uccello che covava dava fastidio alle piante o addirittura procurava dolore
    affinchè non riducesse quello spazio vitale e mettesse in forse la nascita del
    passerotto.

    Deduco che là dove non c’è la possibilità di dialogo, è necessario adoperare dei sistemi, purtroppo, coercitivi.
    Avrei trattato l’argomento in maniera diversa, ma il tempo è sempre tiranno.

    UN ABBRACCIO

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